“Domani ho in programma un trekking che non hai mai fatto. Verresti a chiudere il gruppo?
Certo!”
Così alle otto di domenica mattina, zaino in spalla e scarponi ben stretti, raggiungo Luca all’appuntamento.
Il gruppo si presenta da subito eterogeneo ma stimolante, un miscuglio di età, scarpe giuste e sbagliate, puntuali e ritardatari ma tutti con il sorriso ben stampato in faccia e quella particolare luce negli occhi densa di aspettative.
Tutti pronti e in cammino.
La prima parte del percorso mi è familiare e scorre via veloce. Dopo poco raggiungiamo la grotta che ci ospita per la prima gradevole pausa: c’è chi spiega, chi mangia cioccolato, chi sfidando il fiato approfitta per fumare una sigaretta.
Si riparte! Il sentiero piega e sale severo fino a condurci al punto più alto: l’affaccio sulla valle del Bove.
Questo tratto mi spiazza un po’ perché una nuvola pare essersi accomodata placidamente e ci confonde la vista. E, soprattutto, mi rende difficile prendere dei punti di riferimento.
Questo non ve lo scordate, perché è il motivo per cui nel prossimo blog vi racconterò come un’altra volta sono riuscita a non ritrovare un sentiero e ne ho approfittato per scoprirne un altro totalmente inaspettato.
Comunque, un piede avanti all’altro e dopo poco arriviamo al punto in questione. Purtroppo la visuale che conosco bene, e che lascia senza fiato anche il più navigato dei viaggiatori avvezzo a ogni tipo di panorama, è coperta da una soffice coltre di vapore acqueo condensato. La nuvola è molto più estesa di quanto pensassimo e in effetti non lascia spazio al panorama.
Poco male, la valle del Bove la vedremo tra un po da vicino camminandoci dentro e più in là, forse, avremo la possibilità di ammirarla anche dall’alto.
Luca ci guida sicuro lungo un sentiero non sentiero che taglia in orizzontale fino a raggiungere il momento clou della giornata: la discesa lungo il canalone sabbioso che sfocia in valle.
A detta di tutti, il rumore particolare del pietrisco lavico sul sentiero e la discesa di corsa affondando i piedi nella sabbia, valevano da soli il tour.
Come dar loro torto: io per prima, nonostante di sabbioni ne abbia fatti ormai parecchi, ogni volta mi diverto come un’adolescente alle prime armi sui pattini.
Si scende veloci scimmiottando i gesti degli sciatori, con la differenza che invece di scivolare si affonda, un balzo dopo l’altro. Il piede scompare fino alla caviglia nella sabbia nera che dolcemente frena la discesa. Il trucco è tenere il peso tutto rivolto verso il basso, poi, una volta presa confidenza con il suolo, i goffi movimenti si trasformano in una danza saltellante incredula e gioiosa e il panorama che ci si presenta davanti, finalmente sgombro da nebbia e nubi, è mozzafiato.
Anche se per me il punto forte della camminata arriva poco dopo.
Come vi ho raccontato la volta scorsa ero già stata in valle, ma dalla parte opposta e molto più in basso rispetto a dove mi trovo ora.
Qui siamo sulla parte più alta della immensa colata lavica del 1991-93, dentro un vallone contornato da costoni alti centinaia di metri, con la sensazione di camminare all’interno di una gigantesca pentola svasata. Tutto intorno è montagna, alle spalle, oltre la cima del costone che stiamo costeggiando, il cratere di sud-est padroneggia tranquillo e a fondo valle si scorge la linea un po’ sfocata del mare.
Davanti a noi sabbia e pietre si alternano a vere e proprie lastre di basalto spesse almeno un paio di metri, le cui spaccature danno vita a lunghi canali labirintici.
Si cammina all’interno delle fratture e sopra questi enormi blocchi piani, saltellando qua e là per seguire il labile sentiero reso ancora più incerto dalla quantità incredibile di sabbia caduta durante le ultime eruzioni, capace di cambiare significativamente l’aspetto e l’altezza del suolo.
Ma ciò che mi colpisce davvero è la visuale che si ha da quaggiù dei dicchi che in questa parte della valle si susseguono numerosi.
Abituata a vedere queste lastre solidificate di lava dall’alto, non mi ero accorta di quanto fossero imponenti.
Veri e propri muri di basalto spessi qualche metro, caratterizzati all’interno da disegni geometrici simili a dei mosaici, visibili là dove la lastra si interrompe lasciando scorgere il proprio spessore. In altezza raggiungono la metà e a volte addirittura la cima dei costoni che delimitano e contengono tutta la valle del Bove .
Basta un po’ di immaginazione per sentirsi minuscole creature che camminano tra le enormi costole di quel che resta dell’antico edificio vulcanico.
Mi sento ancora più piccola.
Continuiamo a camminare stando bene attenti a dove mettiamo i piedi ma con la continua necessità di afferrare ogni particolare con lo sguardo, fino a che l’orologio biologico decreta la necessità di una sosta per il pranzo.
Luca individua il posto adatto poco prima dell’imbocco del canalone dei faggi, una fascia di bosco verticale che partendo dal basso riporta velocemente in quota. E da li che effettueremo poi la risalita.
In pochi minuti assistiamo divertiti all’allestimento di un vero e proprio pic nic sulla lava con tanto di bottiglia di vino stappata all’istante.
È il momento degli scherzi, delle bonarie prese in giro, dei resoconti dei “mi è piaciuto di più”, e l’atmosfera si scalda se possibile ulteriormente. Diventa confidenza, scambio, condivisione.
Tanto che quasi non ci accorgiamo che il tempo passa ed è ora di ripartire.
Lasciata la valle affrontiamo la ripida salita di una ventina di minuti, ombreggiata dalle fronde ormai verdi dei faggi e puntellata dai loro candidi tronchi. Splendida. E faticosa, lo ammetto, ma raggiunta la cima la ricompensa è quel panorama che si apre a strapiombo sotto i nostri piedi, finalmente sgombro dalle nuvole, che lascia letteralmente a bocca aperta. E l’incanto è palpabile. Si rinnova ogni volta e ogni volta è diverso.
Lì lasciare il tempo che la meraviglia faccia effetto su ognuno è d’obbligo. A un certo punto li vedi chiudere la bocca, fare un respiro profondo e sorridere.
Allora capisci che sono pronti e che da lì in poi tutto il tempo in più che lasci è solo un regalo che dipende esclusivamente da quanto in ritardo sei sulla tabella di marcia.
Ancora qualche attimo e scolliniamo prendendo il sentiero che scende veloce attraverso un’altra faggeta. Dopo una pausa all’ombra del saggio faggio secolare, accanto al quale ancora resiste un vecchio ovile in pietra lavica, riprendiamo la discesa che ci riporta all’auto tra una foto e una risata. Stanchi, sì, ma con gli occhi felici.
“Siete davvero un bel gruppo, è stato un piacere condividere questi incredibili 9 chilometri con voi”
E lo penso davvero.
Luca annuisce.
Ci salutiamo. Altre facce da conservare nei ricordi sempre più numerosi che l’Etna si diverte a forgiare.
L’esperienza è finita ma dentro di me già sto ripassando il percorso per rifarlo al più presto con Ludovico. Però questa è un’altra avventura, fresca fresca, che vi voglio raccontare a parte.