Stavolta parto dalla fine e vi assicuro che nessun amico è stato maltrattato per poter scrivere questo post. Perché se il risultato è “allora avvisami quando si parte di nuovo”, significa che o i tuoi amici ti amano sconfinatamente oppure che, nonostante le difficoltà, la montagna vissuta a piedi ha definitivamente conquistato anche loro.
Alla fine, davanti a una birra, seduti sui gradini dell’unico bar aperto in tutta l’area turistica della zona sud dell’Etna, abbiamo ripercorso tutti i colori della giornata.
Come le volte che improvvisi e le cose vengono meglio, il gruppo si è formato assolutamente per caso il giorno prima.
Doveva essere un ripasso (mio) di un percorso appena scoperto, e una bella occasione (per Ludovico e tutti gli altri) per conoscere nuovi volti e nuovi tratti di questo splendido vulcano.
Invece si è trasformata in un’avventura in compagnia di amici che hanno voluto condividere con noi questa bella esperienza. E tutto sommato, a conti fatti e in maniera totalmente inaspettata, gli obiettivi sono stati comunque raggiunti all’unanimità. Ho capito sulla pelle quanto aprire la strada di un sentiero che non conosci bene, soprattutto se sei su un vulcano attivo – alias i sentieri appaiono e scompaiono a seconda degli umori di sua maestà Etna, sia davvero una faticaccia oltre che una responsabilità.
Sarà per questo che alla fine ero esausta.
Là dove l’altra volta la nuvola ha giocato a nascondermi i punti di riferimento, in effetti, il sentiero non l’ho ritrovato.
In seguito avrei imparato che i sabbioni in salita vanno sempre evitati, che per conoscere un sentiero nell’Etna, dell’Etna devi prima conoscere ogni pietra e, magari, darle un nome. Che l’umore alto e la positività del gruppo è fondamentale per gestire il panico di chi non sapeva di soffrire le vertigini ma ora sì. Che sbagliare strada, trovarne un’altra e decidere di seguirla fino in fondo ti insegna molto di più che seguire (anche diverse volte) le orme di chi quella strada la conosce già. Che gli esperimenti e le avanscoperte si fanno solo con un gruppo di persone selezionate e che, quelle che erano con me, erano esattamente tutto quello di cui avevo bisogno.
Ma soprattutto avrei avuto la conferma che la mia montagna è una lezione continua di autostima (non ho mai perso la fiducia in me stessa), ed è capace di incoraggiamenti esaltanti: come quando il sud-est ha allegramente sbuffato proprio in un tratto in cui era impossibile non accorgersene, circa a metà di un percorso che si è rivelato molto più difficile del previsto.
E per me, quel segnale, è stata la pacca sulla spalla più potente che potessi desiderare.
Quando ho realizzato di non riuscire a ritrovare il punto esatto dove il sentiero tagliava per raggiungere il sabbione che ci avrebbe condotto, scivolando, nel cuore della valle del Bove, ammetto di essermi sentita molto delusa da me stessa. Mestamente ho assecondato la (loro) sosta pranzo e ho deciso di ripiegare sul sicuro: un ritorno semplice, che conosco a memoria.
Avremmo costeggiato il costone per qualche centinaio di metri per poi ritornare attraverso il bosco, arrivando quasi a chiudere l’anello, e abbandonando l’idea iniziale di raggiungere il Piano del Vescovo, dove avevamo lasciato una macchina, qualche chilometro più sotto.
Invece Ludovico mi propone di proseguire: “e se invece che fare la strada dal basso facciamo il sentiero dall’alto?”
Il sentiero sembrava ben segnalato e per noi rappresentava un’ottima occasione per testare anche quel percorso di cui ci avevano tanto parlato.
Insomma, nonostante la promessa fosse di portarli in basso, è successo invece che abbiamo visto e vissuto tutte le facce della valle del Bove arrampicati sul bordo delle rocce che la delimitano (lato sud) come equilibristi funamboli, a cavalcioni sui dicchi a strapiombo nel vuoto, calpestando un sentiero a tratti cancellato dalla sabbia riversata durante le ultime eruzioni.
Le bandiere rosse e bianche del CAI disegnate sulle rocce ci hanno guidato metro dopo metro anche quando le mie granitiche sicurezze hanno vacillato.
Una ricciolina decenne mi ha soprannominata “gamba lesta” e ha affrontato il suo primo trekking senza smettere di sorridere mai, con gli occhi prima e con la bocca poi. E a detta del padre questo è il più bel regalo che si porterà dentro.
Il panico di qualcuno è stato coccolato e sdrammatizzato magistralmente permettendo di affrontare anche i tratti di sentiero più esposti che, in un attimo di stanchezza, hanno provato anche me.
Ma le vedute che si aprivano senza sosta sotto i nostri occhi (e anche sotto i piedi) hanno spazzato via fatica e scoraggiamento. Le soste condite di battute e risate che sottolineano la fiducia e il cameratismo datati anni di amicizia, hanno cancellato il disappunto iniziale da orgoglio ferito per non aver saputo ritrovare la strada. Mi sono perdonata e mi sono concentrata su quella nuova. E soprattutto ho imparato la lezione di umiltà e di determinazione che questa volta mamma Etna mi ha impartito.
La pioggia improvvisa che per fortuna ci ha risparmiati nei momenti critici, ha innaffiato il sottobosco risvegliandone colori e odori, ha benedetto gli abbracci tra il mistico e il goliardico al faggio secolare, e ci ha rinfrescato la testa.
Ma il momento clou, quello che rievocheremo sempre raccontando di questa storia, è la gioia pura esternata a voce e a gesti quando, dopo ore di cammino, abbiamo finalmente raggiunto il punto in cui il sentiero basso si ricongiungeva con quello alto per poi ridiscendere attraverso la strada conosciuta. Quando cioè ho capito che potevo allentare la concentrazione e lasciare spazio alla leggerezza ché oramai l’ignoto lasciava spazio al noto e la macchina non era poi così lontana.
Alla fine di tutto sento di aver imparato tantissimo da una giornata come questa. Lezioni tecniche ed emotive che mi hanno arricchito notevolmente.
E parafrasando una nota canzone, scelgo le parole che mi sembrano più adatte per ringraziare questa generosa, tosta e incredibile montagna viva:
“Ho le tasche piene di sassi, le scarpe piene di passi, il cuore pieno di battiti e gli occhi pieni di te”