“Ma non andate mai in cima?
Sì! Giusto domani saliamo con un gruppo… è anche il nostro anniversario… un modo diverso di festeggiare!
Perché una cena era troppo semplice, vero?”
Dal diario delle chiacchiere in tour, una delle chicche di questi ultimi giorni che ci ha fatto sorridere.
In effetti ci sono molti modi più rilassanti per festeggiare un anniversario. Ma se penso al nostro matrimonio di sei anni fa non posso impedire che la mente corra a quell’eruzione del 2014 che ci ha accompagnato per tutto il mese.
I boati delle sere prima della festa, lo stupore degli invitati nordici quando è calata la sera e la cima dell’Etna ci ha consegnato il suo regalo di nozze ammaliando tutti con incredibili giochi pirotecnici; il mio primo trekking a Serracozzo appena qualche giorno dopo i festeggiamenti, di notte, a goderci la colata dall’affaccio sulla valle del Bove, e il ritorno azzardato con le torce quasi scariche, con il cane del rifugio Citelli che ci ha aiutato a ridiscendere sani e salvi fino al punto di partenza.
Ancora non sapevamo che da lì a poco quella passione sarebbe diventata anche un lavoro. E neppure quanto lo avremmo amato.
Quindi quale modo migliore, per noi, di festeggiare?
E così domenica scorsa siamo saliti, team Etnavic al gran completo con dieci ragazzi provenienti dall’Ungheria e dal resto d’Italia.
Io mancavo da un anno, Ludo da un po’ di più e Luca… dal giorno prima ovviamente!
Ci ha accolti una giornata calda e limpida. Non fosse che salire lassù, fino a dove l’Etna dà voce ai suoi innumerevoli discorsi, rapisce completamente anima e pensieri, vi direi che la cosa più bella è stata osservare le espressioni dei visi trasformarsi a ogni sosta, a ogni tratto guadagnato. Per poi aprirsi totalmente alle emozioni lassù, tra vapore e zolfo, vento e sussurri dal cratere centrale.
Ma non è solo questo: per arrivare alla cima si attraversa la colata del 2019, ampia e a tratti ancora calda. Gli scarponi scivolano, le caviglie giocano a ballare il twist. Poi isole di sabbia nera ci permettono finalmente di sollevare lo sguardo e, mentre assorbiamo le spiegazioni di Luca, gli occhi corrono increduli tutt’attorno. È difficile capire a che altezza ci si trovi, perché la sensazione è quella di stare sulla schiena di una elegante signora che si è vestita con uno scialle multicolore stampato a soggetto cartina geografica della Sicilia.
E più si sale più lo scialle svolazza.
Non fosse per quegli occhi siculi inteneriti alla vista di Bronte e Randazzo, così piccoli da lì, che portano con sé ricordi di infanzia e di famiglia…
Ma la colata è finita. È il momento di indossare i caschetti e affrontare l’ultima parte della salita.
“Restiamo compatti” dice Luca “perché da qui, se moriamo, dobbiamo morire assieme” e ride.
La cima si avvicina, il vento freddo ci tortura giocando a sollevar sabbia e pietruzze. Da qui l’Etna non appare più così amichevole.
Eppure…
Eppure non si percepisce timore. Né tra noi né tra i turisti che stiamo accompagnando. Piuttosto una sorta di impazienza, di eccitazione che sale e sale fino a non poterla più trattenere.
Così ecco, alla fine della salita, tra pietre e sabbia, il fumo. Tanto fumo. E il primo buco. Enorme. Minaccioso. Affascinante. Nero, bianco, giallo. Ad ogni angolo fumarole, sempre più intense fino a non veder più cosa c’è sotto.
E il calore, stemperato dal vento, percepibile ovunque.
È lì che in modo del tutto naturale non senti più la necessità di parlare. Si prosegue sul bordo del cratere per passare dal Boccanuova al Centrale quasi a fiato sospeso. Si resta in silenzio, ognuno con il proprio tumulto interiore, ognuno con il proprio personalissimo discorso ancestrale che consegna a lei, a questa signora incredibile di 500 mila anni, la grande saggia che ti dice tutto senza pronunciare una parola.
Ecco cos’è, per me.
Un viaggio. Intimo, che parte dalla crosta terrestre e ti arriva fin dentro l’anima.
Ci risveglia la voce di Luca. È ora di andare. E, a malincuore, si va.
Si scende affondando fino alle caviglie nella sabbia, con i capelli che sanno di zolfo e polvere, passando per crateri spenti, fumarole, ghiacciai, canali di lava, angoli di vapore caldo e deserti sterminati color nero antrace.
La discesa finisce dopo 700 metri di dislivello di pura poesia.
Siamo stanchi. Davvero. Ma negli occhi ogni volta si aggiunge una luce profonda di calma acquisita e consapevolezza guadagnata.
Quel qualcosa che li cambia per sempre.
Quello che fa dire a chi li osserva: “quegli occhi hanno visto molto”.
Ma ancora, credetemi, non abbastanza.
Tanti auguri a noi, quindi. È stato bellissimo. Non vediamo l’ora di rifarlo con voi e ascoltare cosa ci racconterete alla fine, prima di scappare sotto la doccia a lavar via tutto quello zolfo, tutta quella sabbia, tutta quella meraviglia.